CALVINO

EURIDICE STREAM

STUDIO PER EURIDICE STREAM

TESTO RIELABORATO DI CALVINO

AUTORE IBRIDO

GIORGIO VIALI

Avete vinto voi, che state all’esterno, e avete riscritto le storie a modo vostro, costringendoci, noi che viviamo dentro, a ricoprire il ruolo delle potenze oscure e della morte. E il nome che ci avete dato, Inferi, è carico di un sinistro significato. Certo, se nessuno ricorderà mai più cosa sia davvero accaduto tra di noi, tra Euridice e Orfeo e me, Plutone, quel racconto distorto dalla vostra narrazione, se davvero nessuno si ricorderà che Euridice era parte di noi e che non aveva mai messo piede sulla superficie della Terra prima che Orfeo la rapisse con le sue melodie ingannevoli, allora il nostro sogno di trasformare la Terra in un organismo vivo sarà completamente perduto. Già, quasi nessuno si ricorda più cosa significasse dare vita alla Terra: non quello che pensate voi, soddisfatti del velo di vita che si è posato lungo il confine tra terra, acqua e aria. Io desideravo che la vita si diffondesse dal cuore della Terra, si espandesse in sfere concentriche, circolasse tra metalli fluidi e solidi. Questo era il sogno di Plutone. Solo così la Terra sarebbe diventata un enorme organismo vivente; solo così avremmo evitato questa condizione di precario esilio in cui la vita è costretta a muoversi, sottoposta al peso opaco di una palla di pietra inanimata sotto di sé e al vuoto sopra.

Dentro la Terra, le cose non sono solide come pensate: è discontinua, composta da strati sovrapposti di densità diverse, fino al nucleo di ferro e nichel, che è anch’esso un sistema di nuclei concentrici, ognuno in movimento separato rispetto all’altro. Voi vi definite "terrestri", ma in realtà siete extraterrestri, gente che vive all’esterno: chi vive dentro è terrestre, come me e come Euridice, fino al giorno in cui me l’avete portata via, ingannandola, nel vostro desolato "fuori".

Il regno di Plutone è questo: io sono sempre vissuto qui dentro, con Euridice prima e da solo poi, in una di queste terre interne. Un cielo di pietra ruotava sopra le nostre teste, più limpido del vostro, attraversato da nuvole, dove si accumulavano sospensioni di cromo e magnesio. A volte, il buio era solcato da linee di metallo incandescente, non fulmini, ma un metallo che scorre attraverso vene. Consideravamo terra la sfera su cui ci muovevamo e cielo la sfera che la circonda. Ma per noi queste distinzioni erano sempre provvisorie e arbitrarie, poiché la consistenza degli elementi cambiava continuamente. A un certo punto, ci accorgevamo che il nostro cielo era duro e che la terra era viscosa, mossa da vortici pulsanti di bolle gassose. Cercavo di approfittare delle colate di materiali pesanti per avvicinarmi al vero centro della Terra, al nucleo che è il centro di ogni centro, guidando Euridice nella discesa. Ma ogni apertura verso l'interno portava via altro materiale e costringeva a risalire verso la superficie; talvolta, mentre sprofondavamo, eravamo avvolti dall’ondata che risaliva verso strati superiori e ci avvolgeva in un abbraccio.

Così, ci ritrovavamo sostenuti da un altro suolo e protetti da un altro cielo di pietra, senza sapere se eravamo più in alto o in basso rispetto al punto di partenza. Quando Euridice vedeva il metallo di un nuovo cielo farsi fluido, si lasciava prendere dall’istinto di volare. Si lanciava verso l’alto, attraversando i cieli come nuotando, aggrappandosi alle stalattiti sospese. Io la seguivo, sia per divertirla sia per ricordarle di riprendere il nostro cammino. Anche Euridice sapeva che dovevamo tendere al centro della Terra. Solo raggiungendo quel centro avremmo potuto chiamare il pianeta nostro. Eravamo i progenitori della vita terrestre e dovevamo cominciare a rendere vivente la Terra dal suo nucleo, irradiare la nostra esistenza in tutto il globo. La vita terrestre, da noi, voleva dire avere radici nella Terra; non a ciò che emerge dalla superficie, che voi biste di chiamare vita, mentre è solo una muffa che si espande sulla corteccia rugosa della mela.

Sotto i cieli di basalto, già immaginavamo le città plutoniche che avremmo fondato, circondate da mura di diaspro, città sferiche e concentriche, che navigano su oceani di mercurio, attraversate da fiumi di lava incandescente. Avremmo creato un corpo vivente, una città-macchina che avrebbe occupato ogni angolo del globo.

Era il regno della diversità e della totalità, che doveva originare da quelle mescolanze e vibrazioni: un regno di silenzio e musica. Vibrazioni continue, che si propagano a velocità diverse a seconda delle profondità e delle discontinuità dei materiali, avrebbero increspato il nostro grande silenzio, trasformandolo nella musica incessante del mondo, nell’armonia delle voci profonde degli elementi. Questo per dirvi quanto sia sbagliato il vostro cammino, la vostra esistenza, dove lavoro e piacere sono in conflitto, dove musica e rumore non si fondono; per dirvi come fosse chiaro fin da allora che il canto di Orfeo non era altro che un simbolo di questo mondo parziale e diviso. Perché Euridice cadde nella trappola? Apparteneva completamente al nostro mondo, ma la sua natura incantata la portava verso ogni forma di sospensione; e appena le era concessa la libertà di librarsi, saltare, scalare camini vulcanici, la si vedeva muoversi in torsioni e danze.

I passaggi tra i diversi strati della Terra la affascinavano. Ho detto che la Terra è composta da strati sovrapposti, come le bucce di una cipolla gigante, e che ogni strato conduce a uno superiore, fino a quel tetto estremo, dove la Terra cessa di essere Terra e tutto il "dentro" resta al di qua, mentre al di là c’è solo il "fuori". Per noi, quel confine era qualcosa di ignoto, ma presente: ci rendeva ansiosi, persino temerari. Era dove finiva la Terra e cominciava il vuoto, un'idea che non potevamo nemmeno immaginare, e ciò che sentivamo al riguardo evocava un'angoscia profonda.

Seguendo Euridice, ci siamo infilati nella gola di un vulcano spento. Sopra di noi, una cavità si apriva come un cratere, grigia e rugosa, simile ai paesaggi che conoscevamo. Ma ciò che ci colpì fu che lì la Terra finiva; non ricominciava a gravare su se stessa, ma quello spazio iniziava un’aria leggerissima e vibrante. Furono queste vibrazioni a distrarre Euridice, così diverse da quelle lente del granito e del basalto. Qui, i suoni giungevano come scintille sonore, suscitando in lei una smania inarrestabile. Io desideravo tornare al silenzio, ma Euridice, attratta dall’unicità, correva verso il suono che proveniva da oltre il cratere. Prima che potessi fermarla, era già oltre il bordo. Forse fu una mano, qualcosa che sembrava un braccio, a prenderla e portarla via, e la sentii unire il suo grido a quel suono, formando un’armonia con quello sconosciuto, scendendo lungo le pendici del vulcano.

Non so se ciò che vidi fosse reale o frutto della mia immaginazione; stavo già sprofondando nel mio buio, i cieli interni si chiudevano sopra di me: tetti di silice, alluminio, atmosfere vischiose di zolfo. Il silenzio sotterraneo mi circondava. Venendo meno a quel nauseante confine dell’aria e al tormento di quei suoni, negavo la mia angoscia per aver perso Euridice. Ero solo, non ero riuscito a salvarla dalla sofferenza di essere strappata alla Terra, esposta a una continua percussione di suoni. Il mio sogno di dare vita alla Terra, raggiungendo quel centro con Euridice, era fallito. Euridice era prigioniera, esiliata nei desolati spazi del "fuori".

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GIORGIO VIALI